Il Gibuti è una «Repubblica democratica, sovrana, unica e indivisibile», e tutti i suoi cittadini sono uguali davanti alla legge «senza alcuna distinzione di lingua, origine, razza, sesso o religione» (articolo 1). Tuttavia, la religione maggioritaria, l’Islam, ricopre un ruolo sempre più importante nella società gibutiana, come dimostrano le modifiche apportate allo status di tale religione nella Costituzione stessa. Nella Carta promulgata nel 1992, il riconoscimento dell’Islam quale religione di Stato era contenuto nel Preambolo, mentre nella versione modificata nel 2010 tale definizione occupa un posto di maggior rilievo, essendo contenuta nell’articolo 1.
Ai sensi dell’articolo 6 di entrambe le versioni della Carta Costituzionale, ai partiti politici è vietato «identificarsi con una razza, un’etnia, un genere, una religione, una setta, una lingua o una regione». L’articolo 11 garantisce ad ogni individuo «il diritto alle libertà di pensiero, coscienza, religione, culto e opinione [nel] rispetto dell’ordine stabilito dalla legge e dai regolamenti».
La Costituzione non vieta esplicitamente il proselitismo, ma proibisce di fare proselitismo in pubblico. Non vi è alcuna legge che punisca chi non rispetta il Codice islamico o professa un’altra religione. Secondo quanto dichiarato dalla Caritas locale, la Chiesa cattolica non può evangelizzare nel Paese, tuttavia le è permesso dedicarsi ad attività di sensibilizzazione sociale.
Un decreto approvato nel 2014 conferisce al Ministero degli Affari islamici ampi poteri sulle moschee del Paese e sul contenuto delle preghiere pubbliche. La competenza del ministero si estende a tutti gli affari islamici, dalle moschee e le scuole private confessionali (su cui ha giurisdizione anche il Ministero dell’Educazione) agli eventi religiosi. Tale provvedimento ha reso gli imam dei funzionari pubblici, ufficialmente impiegati del ministero. Secondo quanto affermato dal governo, questa decisione avrebbe lo scopo di impedire lo svolgimento di attività politiche all’interno delle moschee, di permettere alle autorità di controllare le attività dei luoghi di culto islamici e di limitare l’influenza estera su di esse. Dopo l’entrata in vigore del decreto, oggi quasi tutte le moschee hanno un imam nominato dal governo. Il sistema educativo statale è laico, ma vi sono circa 40 scuole private islamiche.
Indipendentemente dal fatto che siano di origine locale o straniera, i gruppi religiosi non musulmani sono tenuti a registrarsi presso le autorità. Le richieste di registrazione vengono esaminate dal Ministero dell’Interno e non sono concessi permessi provvisori, in attesa del completamento degli accertamenti. Per contro, i gruppi musulmani sono semplicemente tenuti a notificare la loro esistenza al Ministero degli Affari islamici e culturali. Non sono tenuti a registrarsi, né sono soggetti al controllo del Ministero dell’Interno. Anche le comunità straniere, siano esse islamiche o non musulmane, necessitano del permesso del Ministero degli Affari Esteri prima di poter operare in Gibuti.
All’atto dell’assunzione delle proprie funzioni, il capo dello Stato presta giuramento islamico.
Per risolvere controversie relative a matrimoni, divorzi o eredità, i musulmani possono rivolgersi sia ai tribunali di famiglia che ai tribunali civili. I tribunali di famiglia integrano elementi di diritto civile e di diritto islamico. Per i non musulmani, tali questioni sono invece competenza esclusiva dei tribunali civili. Per i non islamici, anche le questioni legate al diritto di famiglia sono disciplinate da tribunali civili statali; per sposarsi con rito civile, ad esempio, sia i cittadini che gli stranieri non musulmani devono richiedere l’autorizzazione a queste corti. Il governo riconosce i matrimoni religiosi non islamici esclusivamente dietro presentazione di un documento ufficiale rilasciato dall’organizzazione che ha celebrato l’unione.
Nel maggio 2019, il presidente Ismail Omar Guelleh ha autorizzato delle cure mediche per lo sceicco Abdulqadir Mumim, un imam associato allo Stato islamico (Daesh) in Somalia.
Nel novembre 2019 è stata inaugurata la più grande moschea del Paese, la Moschea Abdülhamid II, finanziata dalla Direzione degli Affari religiosi della Turchia. Il governo ha anche permesso la costruzione di un secondo cimitero cristiano appena fuori dalla città di Gibuti.
A differenza degli anni precedenti, non risulta che durante il periodo in esame le autorità abbiano punito gli imam estremisti.
Per la prima volta, il Ministero dell’Educazione ha permesso ai rifugiati di celebrare le festività della propria fede che cadevano durante il normale calendario scolastico; di norma, le scuole locali celebrano soltanto le festività islamiche. Il ministero ha anche incoraggiato l’inclusione religiosa attraverso cambiamenti nel programma di studi.
A differenza degli anni precedenti, il governo ha iniziato a richiedere ai missionari stranieri di «regolare il proprio status attraverso l’acquisto di una carta di residenza del costo di 24.000 franchi gibutiani (140 dollari)» e di fornire prova dell’appartenenza a un gruppo religioso registrato.
Le comunità cristiane hanno continuato a segnalare che quanti si convertono al Cristianesimo subiscono discriminazioni sia in ambito educativo che lavorativo, mentre i leader religiosi musulmani notano come le reti sociali tradizionali di solito «emarginino i convertiti dall’Islam». La religione non viene insegnata nelle scuole pubbliche.
La posizione geografica strategica di Gibuti rende il Paese un ospite privilegiato per le basi militari straniere, come quelle di Stati Uniti, Francia, Italia e Cina, nonché per le truppe di Spagna e Germania. La presenza militare straniera serve a contrastare l’estremismo violento che opera nella regione, in particolare il gruppo al-Shabaab, originario della Somalia. Tuttavia, tale posizione rende Gibuti anche una destinazione obbligata per coloro che sono in fuga dai violenti conflitti in corso nella regione, con il conseguente rischio di tensioni qualora i rifugiati non riescano ad integrarsi. Un aspetto particolarmente importante in un Paese con un alto tasso di disoccupazione.
Indipendente dal 1977, questa ex colonia francese vede ancora il persistere di tensioni tra i principali gruppi etnici, in maggioranza issa e afar, mentre si espande al tempo stesso il raggio d’azione dell’estremismo islamico nel Paese. I rapporti tra musulmani e cristiani si sono deteriorati negli ultimi anni a scapito del dialogo interreligioso. Più recentemente, il Paese ha iniziato ad accogliere numerosi rifugiati, soprattutto dallo Yemen, e a ricoprire un ruolo geostrategico importante per la Cina, che proprio in Gibuti sta costruendo la sua prima base oltreoceano. Anche l’Arabia Saudita ha ampliato la propria influenza nel Paese.
Facendo parte con un proprio contingente della Missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM), il Gibuti è un possibile obiettivo di al-Shabaab. In precedenza, il gruppo terroristico aveva già minacciato pubblicamente il Paese. Il futuro di Gibuti è incerto, come pure incerto è il futuro della libertà religiosa in questa nazione.